Questo

Blog è morto. Non sarà pubblicato altro. Mi sembra giusto, anche se non so bene nei confronti di chi o cosa, dirlo a voce alta. Più che il blog è la persona che scriveva, che non c’è più. Grazie a chi mi ha fatto compagnia.
Saluti.

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Qualcosa

Oggi camminavo per una di quelle strade lunghe lunghe che tagliano le città grandi e c’era, fuori a una gelateria, una ragazza con un vassoio con sopra dei bicchierini, degli assaggi gratuiti di gelato che proponeva ai passanti. E per tutta la strada, finche ho camminato su quella strada dal lato della gelateria, non si parlava d’altro che della gelateria che dava il gelato gratis. Ne parlavano le signore (‘sai, dànno il gelato gratis’, ‘e noi che ci facciamo ancora qui?’) e i ragazzini (‘ma quella regala il gelato?’, ‘sì, ma è un bicchierino, che ce famo’).
E niente, vedendo questo fenomeno ho pensato di scrivere qualcosa sul blog. E allora adesso lo scrivo.

Qualcosa sul blog.

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Abbagli

L’altro giorno ho visto, per terra, un pacchetto di sigarette con sopra la scritta Il fumo riduce la felicità, che mi è sembrata una scritta bellissima, per dissuadere qualcuno. Poi ho letto meglio, Il fumo riduce la fertilità, c’era scritto, allora mi è sembrata una scritta meno bella. E mi sono ricordato di quella volta che ho visto un ragazzo, aveva una maglia, Coito ergo sum, c’era scritto. E mi è sembrata una maglia bellissima, che rappresentasse sia il modo in cui era venuto al mondo, sia il modo nel quale ci stava, al mondo, quello lì e anche la maggior parte degli uomini, oggi, secondo me. Poi, ho guardato meglio, Cogito ergo sum, c’era scritto. E allora mi è sembrata meno bella.

E niente, a proposito di abbagli,
oggi son passato davanti a un negozio e fuori c’era scritto Bar Caffetteria Ristorante Pizzeria Paninoteca Birreria Pub Macelleria Frutta e verdura Aperto. E io allora ho pensato che certe persone sono così, che a guardarle ti mettono una curiosità e una voglia, sembra che dentro tu ci possa trovare tutto quello di cui hai bisogno. Poi invece vendono abbaglianti insegne luminose.

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La quinta dimensione

Ci sono essenzialmente due modi di passare un sabato sera, le altre sono varianti o sottocategorie di questi. Il primo è fare la bella vita e divertirsi. Il secondo è guardare film strappalacrime, preferibilmente accompagnandoli con quantità smodate di cibo esotico e mal assortito. Come è facilmente intuibile dal fatto che io sia qui a scriverne, stasera, a me, è toccato il secondo.
Il film che ho scelto per farmi perforare l’anima con effetto tipo spillo nel super santos è My sassy girl, solo che invece di roba gassosa che esce dal foro fino a esaurimento e conseguente stato di inutile immobilità, c’è roba liquida che esce dagli occhi. Le conseguenze, però, son le stesse.
Come le vecchie scorbutiche dei primi piani scelgono, per meglio bucare l’arancione e malcapitato pallone, i loro migliori e più appuntiti storici spilli, così, in questi casi, si tende a scegliere un film già visto e collaudato. Magari scegliendone a rotazione uno da una lista che, ogni tanto, vede aggiungersi una nuova cartuccia. Mantenendo fede a questi princìpi io ho scelto di rivedere questo.

La storia è la storia di un amore.
L’amore è inteso però come una quinta dimensione. Ci sono le tre dello spazio, legate indissolubilmente alla quarta che è il tempo. La quinta, legata alla quarta e quindi alle altre tre, è l’amore.
La storia è la storia di un amore impossibile.
È reso impossibile dal fatto che lei non vive lo stesso tempo di lui. Lo stesso spazio. Lo stesso amore, quindi.
Il motivo per cui non vive lo stesso tempo è uno strappo nel suo, di tempo, che a un certo punto si è fermato. Lo strappo è dovuto a una vecchia relazione, finita ma presente, che la tiene incatenata al passato. Il tempo di lui, invece, è il presente. Che lei chiama futuro.
La storia è la storia di un amore tra due che vivono in tempi diversi.
Non possono, quindi, comunicare, non possono toccarsi, possono solo vivere di riflessi l’uno dell’altra.
Questa incomunicabilità, questo loro vivere su due piani (temporali) diversi che scorrono l’uno sull’altro sfasati, inrociandosi ma senza mai combaciare, è reso nel film da molte scene che è inutile che provo a descriverle, faccio prima a farvene vedere una. Per esempio quella del treno.
La storia è la storia di uno strappo che è una ferita,
una ferita che sta cicatrizzando, ma che ha i suoi tempi, ci sono ferite che ci mettono una vita, a cicatrizzare.

Ecco a me questa cosa qui, questa cosa del rincorrersi, cercarsi e non trovarsi, questa cosa che puoi incontrare la persona che amerai tutta la vita, nel momento esatto in cui quella persona non può accorgersi di te, nel momento esatto in cui è distante nello spazio, quindi nel tempo, quindi nell’amore (potete rimescolare l’ordine come volete), ecco, questa cosa qui è una cosa che mi strazia, pensarci.
Ed è una cosa della quale potrei parlare, scrivendo per delle ore, facendo degli esempi, ma. Non so. Questa volta voglio lasciare così, tutto vago, probabilmente solo chi sa già di cosa parlo riuscirà a capire quello che voglio dire. Forse, addirittura, neanche loro, dato che non mi sono spiegato per niente.

Io voglio solo mettere qui la scena del film che mi ha fatto venire voglia di parlarne. Che è una scena che mi ha fatto pensare a tutte quelle cose che si vorrebbero dire, gridare, ma non si riesce a farlo, perché la persona alla quale vuoi gridarle non è lì, su quel piano, che non è poi un piano è uno spazio a cinque dimensioni, abbiamo detto. E allora tu provi, provi a gridare con tutte le tue forze, ma non riesce a sentirti. E allora prendi l’ago, il filo, cominci a cercare di ricucire, sperando di non morire prima.

La scena (sì, stavolta ci sono i sottotitoli) è poi l’unica nella quale lei riesce a dire in faccia a lui qualcosa di sincero, ad esprimere i suoi sentimenti. Ovviamente, essendo lei nel passato, non riesce davvero a parlargli. Non riesce a farsi sentire davvero. E questa cosa, questo blocco, questa incomunicabilità, è rappresentata così.

 

Piesse: per i più curiosi, quelli cioè che se lo vanno a gugolare, sia chiaro, il film è quello sudcoreano del 2001, non quello ammericano del 2008.
Pipiesse: io qua metto una cosa che secondo me spiega bene che c’entra l’amore con il tempo, se vi può interessare.

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Parole e buchi neri

“nessuno qui dà peso alle parole
o tutti ne sarebbero schiacciati”

Sarebbe bello se le parole avessero un peso. In grammi, dico, una massa, insomma. O anche non in grammi, ma ci siamo capiti. Sarebbe bello se si potessero prendere, mettere sulla bilancia e pesare. Lui dice a lei Ti amo, lei dice a lui Aspetta un attimo. Pesa. Mezzo grammo. Ceffone.
Quanto tempo risparmieremmo? Varrebbe più mezzo grammo di ti amo o trecento di mi manchi? E un chilo di Buongiorno e Buonanotte?
Le promesse elettorali dovrebbero superare una soglia minima di peso, prima di poter essere promesse in giro. Si potrebbero lanciare addosso a qualcuno dei vaffanculo da duecento chili, togliersi belle soddisfazioni. Si potrebbe comunicare l’amore, finalmente, con le parole, che sarebbero così pesanti, così dense, da formare un buco nero momentaneo, attrarre gli amanti dentro un punto piccolissimo.
Sarebbe bello se la gente avesse timore, delle parole. Sarebbe bello se le parole troppo leggere, quelle inconsistenti, quelle dette senza crederci neanche un po’, non arrivassero mai a destinazione, come se si provasse a centrare il bersaglio, invece che con una una freccetta, con una piuma.

Avevo tuttavia notato che esisteva anche un uso inoffensivo della parola. “Bel tempo, vero?” o “Mia cara, la trovo in ottima forma!” erano frasi che non producevano alcun effetto metafisico. La gente poteva dirle senza timore. Si poteva anche non dirle. Se si dicevano, era sicuramente per avvertire le persone che non stavamo per ucciderle. Erano come la pistola ad acqua di mio fratello; quando mi sparava annunciandomi “Bum! sei morta!” io non morivo, ero semplicemente zuppa. Si ricorreva a questo tipo di discorsi per mostrare che la propria arma era caricata a salve.
(
La metafisica dei tubi, Amélie Nothomb)

Sarebbe bello se anche i silenzi avessero un peso. E in base al peso poter distinguere silenzi vuoti, silenzi imbarazzati, silenzi spaventati, silenzi innamorati, con emozioni e sentimenti che si sommano alla massa del silenzio e così anche l’esitazione, nel silenzio esitante.

Io credo che parlare, parlare davvero, lo faccio solo con quelli che pesano le parole, le mie e le loro, con gli altri mi limito a respirare emettendo suoni che loro interpretano. Io credo.
E quelli che non le pesano, le parole, quelli generano il caos e sono la causa di tutta la diffidenza che c’è nel mondo, riguardo alle parole. Che io certe volte dico delle parole che se pesassero peserebbero delle tonnellate, a parlarle, e io le parlo aspettando di sentire il rumore, il colpo, invece non sento niente, che c’è il muro di gomma della diffidenza si fa fatica, oggi, parlare parole pesanti, si rischia che vengano rimandate indietro ci cadano sulle dita dei piedi.

Poi Lang disse:
– Tu vai pazza per le parole, vero? – Guardò Lenore. – Vero che vai pazza per le parole?
– Cioè? Che significa?
– Significa che mi dai l’idea di una che va pazza per le parole. O forse pensi che siano loro a essere pazze.
– In che senso?
Lang guardò nel tavolino di vetro, poi si toccò distrattamente il labbro superiore, con un dito.
– Nel senso che le prendi terribilmente sul serio, – disse. – Tipo come se fossero un bisturi, o una motosega che rischia di tagliarti con la stessa facilità con cui taglia gli alberi.
(La scopa del sistema, David Foster Wallace)

Piesse: la citazione all’inizio viene da questa canzone qui. Che io potevo mettervela all’inizio, ma non dovevate ascoltarla leggendo. Dovete ascoltarla ascoltandola.
Pipiesse: Daniil Charms, di cui un po’ ho parlato qui, diceva che Bisogna scrivere versi tali che a gettare una poesia contro la finestra il vetro si deve rompere.
Pipipiesse: saluti.

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Lói

Farsi una doccia calda e trovarla piacevole, farla per scelta e non per uno strano capriccio della caldaia, in luglio, è una cosa alquanto atipica, per me. Così come atipico è il luglio che entra dalla finestra e, quindi, anche quello qui nella stanza.
Da piccolo avevo sempre un sacco di paura, dei temporali estivi. Le giornate estive erano tutte lunghissime e calde, piene di sole, tutte tranne alcune, ma poche, un paio o due all’anno. C’erano questi giorni che di solito cominciavano anche bene, sole, che tu non notavi mica niente di strano, era un giorno come quello prima, facevi il bambino, giocavi, ti stendevi sul divano di pelle che era freschissimo, poi dopo un po’ diventava bollente e allora ti alzavi, andavi sull’altro. C’erano questi giorni che di solito cominciavano anche bene, poi, dopo pranzo, quando tutto d’estate è calmo e riposa, iniziavi a sentire dei tuoni lontani e allora ti accorgevi anche del vento, forte, a ondate, che come avevi fatto a non notarlo prima chissà. Scostavi la tenda e guardavi fuori, in alto, il cielo che non era più blu ma grigio scuro e nero all’orizzonte. Cominciavi allora a sentire freddo e chiudevi i balconi, mentre sentivi anche i tuoni che intanto il vento forte avvicinava. A un certo punto non potevi più far finta di niente, il rombo era così vicino che il pavimento tremava. Allora ti alzavi, schiacciavi la fronte alla finestra e, coi piedi nudi sul pavimento freddo, aspettavi il tuono, che bella parola, tuòno, guardavi il vento portare via le cose. Delle volte, quando non c’era troppo freddo, la finestra restava aperta e insieme ai rumori furiosi entrava l’odore della pioggia che non cadeva. L’odore della pioggia che non cadeva sull’erba, l’odore di quella che non cadeva sul viale, l’odore, fortissimo, di quella che non cadeva sull’asfalto della strada. Tu, bambino, guardavi e respiravi e avevi paura, sembrava l’apocalisse. Anche se, poi, non pioveva quasi mai.

Una delle cose che mi è sempre piaciuta di più, dell’estate, è la lentezza. Ci sono quelle ore del giorno, quelle più calde, dopo pranzo, per esempio, che il mondo quasi tutto riposa e, quello che si muove, si muove lentamente. Non si sentono voci, non si sentono macchine, solo dei rumori. Quello che il vento, piano, muove, delle foglie o delle tende, delle porte che sbattono. Qualcuno che lava i piatti, in silenzio, il tintinnio delle posate. Un gatto che miagola la sua serenata. Qualche uccello che, col suo canto cadenzato, si sostituisce al tempo, che ora scandisce lui.
Il tempo. Il tempo che rallenta, che si ferma. Il tempo che, come fosse di metallo, per il caldo si dilata pure lui.

Lói

Il nove luglio, una domenica
dovevano essere le cinque del pomeriggio,
a Ciola, proprio in cima,
alla casa di Baròus,
ma di dietro, nell’ombra,
tra la siepe, che di là cala giù dritto
nel fondo di Lasagna,
e il muro, che era tutta una verdura,
con un venticello che faceva ogni tanto
un po’ di tramestio fra le canne,
a un tavolino giocavano a tressette
e tenevano i sassi sulle carte
perché non volassero via.
E quando a quello di mano
gli è venuta la cricca di coppe
e tre tre senza danari,
s’è gonfiato un po’, ma zitto, non s’è fatto capire,
s’è accomodato sulla sedia,
poi è uscito con l’asso, e non diceva ancora niente,
ma dalla contentezza
ha dato una botta sul legno
che nei bicchieri il vino ha tremato tutto,
e la cicala sul ciliegio
ha taciuto di botto dalla paura.
L’aria allora è diventata così leggera
che sul crocicchio s’è sentito pigolare
il campanello arrugginito di una bicicletta,
e laggiù, ma lontano,
volare un aeroplano sopra il mare.

Piesse: la poesia è di Raffaello Baldini, presa da La Nàiva, Furistìr, Ciacri, Einaudi. L’originale è in dialetto romagnolo. Il titolo, Lói, significa luglio.

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Una specie di poesia – 2

Oggi
mi sento capriccioso
ho voglia di puntare i piedi
e guardar male,
i denti
digrignare.

Oggi mi sento
stufo
stanco
seccato
annoiato
adolescente
così, per capirci, oppure
così, se la preferite in italiano,
insomma
fate voi.

Oggi ho voglia di andare
al mare
e togliermi i vestiti restare
col costume
e togliere la gente restare
col silenzio
e togliere il sole
restare
colla notte.

E poi nel cielo
mettere
le stelle come il sale
cù bì,
a pizzichi,
e la luna in alto lanciare
come un frisbee.

Oggi ho voglia di star fermo
ad impigrirmi
trascurarmi
ad aspettare
e poi ho voglia che tu passi
che ti fermi
che mi vedi
che mi dici
“Hello stranger”
come Natalie Portman nel film
o in italiano se preferite
“Ciao straniero
Che ne dici,
andiamo al mare?
Io
di stelle ne ho manciate
il frisbee invece puoi portarlo
tu”.

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